CHI E’ ALDO CIAVATTA, RE DEL CASUAL Dall’ago al miliardo Europeo 1987

SECONDO BOOM ECONOMICO/CHI E’ ALDO CIAVATTA, RE DEL CASUAL

Dall’ago al miliardo (di Lina Coletti)

Ha cominciato nella bottega sarto del padre. E andava in giro a vendere pantaloni sulle bancarelle. Oggi fa indossare i suoi jeans a Reagen e a Maradona. Qual è la sua prossima meta? Un fatturato di 170 milioni

Lo vanta come un trofeo: ed è l’accordo con gli Spandau Ballet per una nuova linea («Casual, naturalmente »), disegnata dai suoi stilisti ma con l’apporto («Fondamentale…») di questi rockettari che sono idolo non infranto di scapigliati e incalcolabili teen agers di mezzo mondo. D’altronde lui, Aldo Ciavatta, quarantaquattrenne riminese d’assalto, moglie e due figli, a exploit del genere è ormai uso da tempo, se è vero com’è vero che i suoi jeans, i suoi giubbotti, le sue giacche, le sue camicie, li trovi indifferentemente addosso a David Bowie, Mick Jagger, Maradona e maraona-jegger-reagenBruce Springsteen, Platini, Miguel Bosè e Kelly Le Brock alias «la donna in rosso».  Persino Ronald Reagan è stato colto in un momento di relax con un paio di pantalonacci tipo cow-boy etichettati Closed sulla patta. Dove Closed sta per uno dei tanti marchi della Cfm International, la Compagnia finanziaria mode, che sta per diventare capofila della holding di cui Ciavatta è al vertice.

Curioso personaggio, questo Aldo Ciavatta. Self Made Man allo stato puro. Una sorta di re Mida che dall’ ago è approdato non al milione ma ai miliardi. Quattro aziende: una a Rimini (la Ball), una a Chianciano (la Moditalia), due nella Repubblica di San Marino (la Satis e l’Arcobaleno). Lui, l’amministratore delegato, e il padre Bruno, ex sarto di gran bravura ma non di grande avvenire, il presidente. Duemila persone tra dipendenti ed esterni. Ventimila capi sfornati al giorno. Quarantadue al minuto. Oltre 4 milioni l’ anno. Un fatturato globale che nell’ 85 ha superato i 130, e per l’ 87 prevede di sfondare il tetto dei 170.

Curioso personaggio davvero, questo Aldo Ciavatta, un po’ ammantato dal paternalismo, forse per via di quel  «babbo» (lui lo chiama così) che in azienda s’occupa della parte finanziaria, e del cognato che gestisce la Moditalia, e della moglie che «in città», a Rimini, appunto, porta avanti un meganegozio tutto suo, il Metropolis, e infine del figlio Andrea, che appena finito il liceo «sceglierà la sua strada, ma nel caso volesse star con noi, i suoi meriti dovrà conquistarseli sul campo, tenendo bene in mente tutte le fatiche, tutti i sudori, tutti i sacrifici che d’ogni fabbrica impregnano ogni mattone»

Rammentiamoli anche noi, Ciavatta, quei sacrifici. Ma partendo proprio dal principio: e cioè da quando lei era bambino e…

«E le giornate le passavo nella bottega da sarto del babbo. Ricordo che me ne stavo lì, zitto zitto, e lui lavorando mi faceva da custode, anche. Straordinario artigiano, sa, il babbo. Uno che era stato coi grossi nomi di Roma, di Milano, di Firenze… E dopo si era messo in proprio ma di soldi ne vedeva pochi, io sono cresciuto tra i suoi sacrifici, e sacrificio significava allora sgobbare dalla mattina alla sera senza piagnistei, onde poter vivere, e fai vivere, in un modo degno e  pulito. Se ripenso a certi discorsi, certe frasi, certe atmosfere… Be’: mi rendo conto che il binario sul quale mi sono più tardi instradato è lo stesso che lui percorreva: quello della rettitudine, soprattutto. Quel suo ripetermi, a cicli: “Non ti lascerò del denaro come tuo nonno ha fatto con me, ti lascerò in capitale, un nome bello e pulito, serio e onesto”… Ecco: sono parole che non si dimenticano, può immaginare. Era anche molto severo il babbo: questo si.  Ma come tutti i capifamiglia del tempo credo. E per lui educazione significava assoluto rispetto per i più grandi, significava totale silenzio quando parlava con mia madre… Lei era più permissiva, devo dire.  Perché era nata Laura, nel frattempo: questa creatura che oggi è una donna eccezionale, ma a due anni e mezzo si ammalò di poliomielite, e da allora tutte le attenzioni anche un po’ frivole che mamma era pronta a proiettare sulla femmina le convogliò su di me esigendo ch’ io fossi sempre appuntino, compito e ben portante»

E lei…

«Be’ sa: questa disgrazia di Laura ammalata… Il babbo cominciava allora a poter forse accantonare qualcosa, ma quel punto fu proprio il tracollo, perché, è ovvio, tutte le risorse andavano concentrate su questa bimba meravigliosa e sfortunata. Così divenne difficile anche mettere assieme il pranzo con la cena, credo. Comunque, irresponsabile come tutti i ragazzini, io la sventura la vivevo a livello di subconscio, ma restando sereno, e tutto sommato felice. Pensi che avrò avuto 12 o 13 anni e con una cricca d’amici già ero un habitué delle scorribande settimanali a Bologna. La meta? La “piazzola”, vicino alla stazione, l’unico con delle bancarelle che ti offrivano i primi indumenti usati provenienti dall’America. Certe camicie di foggia eccitante. Certi pulloverini cachemire che te li saresti sognati, altrimenti… Ci passavamo interi pomeriggi, sa. Lunghi, felici, giocosi, assolati pomeriggi. Compravamo a pochissime lire, naturalmente. E naturalmente i padri e le madri, anche un po’ storcendo il naso, li definivano stracci, quegli acquisti. Senza capire che per noi, era invece proprio un modo d’instaurare una diversa ”cultura”. Mia madre soprattutto. Avevo dei problemi a scuola? Lei per punizione me li nascondeva, quegli “stracci”…»

Che tipo di scuola, Ciavatta?

«Ahimè: come diploma posso purtroppo esibire solo quello della quinta elementare. Ho frequentato anche le tre medie, in realtà: ma studiando zero. Perché, dentro, avevo già quest’anima riminese del divertimento che trascina, del vitellonismo alla Fellini che un po’ t’instrada in tutta un’opposta serie d’aspirazioni. E difatti, prima dell’esame per poi passare al ginnasio, il babbo venne a prendermi, d’accordo con i professori. Voleva evitarmi una magra figura, non so se afferra. Capiva che la sconfitta non m’avrebbe temprato. “Me lo porto a casa”, disse, semplicemente. E mentre mia madre era delusa, m’affiancò nel suo lavoro».

A fare che?

«Be’: lui s’era evoluto, intanto, e oltre agli abiti normali produceva dei pantaloncini suoi ma molto classici, molto semplici. Capi di 4 colori, ricordo: bianco, blu, beige e celeste. A me spettava venderli. Lui mi caricava la macchina, mi mandava in giro, e io… Insomma: io morivo di noia».

Così…

«Così tirai fuori l’intraprendenza. E anziché far le vendite normali, che comportavano insistenza, pazienza, blandizie, tutte cose che un po’ mi seccavano, gliel’ho detto, vendevo in conto deposito, e cioè lasciavo un tot di merce, e dopo tot giorni mi pagavano quelli che erano riusciti a spacciare, rendendomi le rimanenze. Ovvio che, non rischiando nulla, ne accettavano in gran quantità. Ma il babbo certo non era felice. Perché i soldi immediati e in contanti, zero: in compenso, una gran fatica per star dietro alla massa delle consegne»

Allora non è vero, come hanno scritto in un libro sui «nuovi ricchi» che lei girava per i mercatini della Romagna con una bancarella tutta sua vendendo direttamente a autoctoni e villeggianti…

«No: non è vero. Semmai vendevo “alle” bancarelle, non “sulle” bancarelle. E comunque ci fu uno sbocco, dopo: un prendere le cose più sul serio, un cominciare a guardarsi attorno con occhio soprattutto professionale. Il risultato? La scelta di dare a quei pantaloni un tono più frivolo, più giovane, più azzardato, più frizzante. E, più tardi, quella d’inventarne altri tutti miei. Un momento di grande lite, sa, con il babbo. Perché gli vendevo la gabardine che lui teneva in magazzino. E con ciò che ne ricavavo compravo tessuti un po’ strani, certi cotonacci che poi stingevo a modo mio e avevano lo scopo di vestire giovane, disinvolto, facile… Non fu un intuizione improvvisa, comunque. Non fu folgore che di  colpo ti schiarisce l’orizzonte. Fu che allora pesavo 100 chili e non sapevo mai cosa mettermi addosso, così cominciai a figurarmi in certe mise un po’ informi, e in certe giacche molto larghe che un po’ parevano delle camicie. Morale: affittai un appartamento di 80 metri quadri e dentro ci misi 4 macchine da cucito e 4 operaie. Mi alzavo alle sei e andavo a prenderle a casa. Alle 7:30 eravamo tutti in quello che pomposamente definivo “il mio laboratorio”. Loro iniziavano a produrre e a etichettare, io caricavo la macchina, m’avviavo a vendere, e alle 7 di sera ero di nuovo lì per prelevare le donne e riaccompagnarle a casa»

Attorno, intanto scintillavano i «favolosi anni ’60»…

«Già. Ma sa come li ricordo, io? Come un grandissimo impegno di lavoro. Anche 24 ore su 24, mi creda. Ininterrottamente. E basta con la vita da giovanotto estroverso, caciarone e infuocato. Ballare? Finito. Le ragazze? Finito. Il vitellonismo in piazza Tre Martiri o sul viale Regina Elena? Finito. Mi sono passati sulla testa persino i Beatles, pensi un po’. Sono rimasto a Elvis Presley, io: del quale tengo un busto sulla scrivania, roba senza valore, comprata in un negozio di souvenir americano, ma che ancora rappresenta una passione, una mania che già ho trasferito a mio figlio… »

E quando esplose il ’68… Lei aveva 25 anni, nel ’68. E poiché la contestazione fu anche il ribaltone totale di un certo modo di vestire… Insomma: narra la leggenda che lei di nuovo cavalcò la tigre, intuendo che dietro l’angolo s’annidava la cultura dell’eccesso e che capi tipo i jeans avrebbero imperato senza tramonto.

«Ebbi questa lungimiranza, sì»

E coinvolse anche il babbo…

«Sì. E difatti ci allargammo insieme. All’inizio una piccola fabbrichetta, di 15 persone, e, annessa, una mini lavanderia per “consumare” e invecchiare il tessuto»

Il famoso «denim». Ovvero la tela jeans più classica: quella imbarcata a Genova nel 1870 con l’America per meta, e grazie agli yankee destinata a diventare la più rivoluzionaria tra le stoffe dell’intera storia dell’ abbigliamento.

«Certo. Però gliel’ho detto: io la consumavo, l’invecchiavo, la strapazzavo, e quasi subito buttai sul mercato i “baggy”, che erano jeans larghi e un po’ informi, e subito fecero presa proprio negli Stati Uniti, vero è che il persino prestigioso Time mi dedicò un articolo sottolineando l’abilità di chi aveva travolto le resistenze dei puristi del pantalone vecchio West, addirittura suggerendo come poteva esserne interpretata l’evoluzione»

Fu allora che lei disse: «Il mio primo obiettivo è quello di raggiungere i 200 milioni di fatturato l’anno»?

«Può darsi. E sa perché? Perché quel traguardo rappresentava la possibilità di soddisfare tutte le mie ambizioni e i miei vizi»

E dopo?

«Dopo l’escalation fu rapidissima. al punto d’aver momenti in cui non capivo più niente: solo che lavoravo di giorno e di notte senza fermarmi mai.»

Cominciarono a proliferare i suoi marchi, difatti…

«Già: Ball, Closed. E poi Marithè & François Girbaud…»

Da quel che ho letto, giovanissimi stilisti francesi che all’epoca a nessuno voleva e ora sono stelle di prima grandezza

« E poi Katharine Hamnett…»

Altra celebrità, ex disegnatrice di pellicce che, travolta da non insolita coscienza ecologica, darà scandalo apparendo accanto alla Thatcher con una T-shirt su cui ha stampato la sua protesta contro i missili Pershing.

«E ancora Red Button 601, Hallosanfant…»

E Mika Takarowa? Come aneddoto divertente, in proposito. Era in auge la moda giapponese, e lei prese a spacciare una certa Takarowa per una splendida diciannovenne oriunda del Sol Levante. Ma tutti volevano conoscerla, e per tre stagioni riuscii a dribblare. Alla quarta fu giocoforza decidersi a dir la verità. Che la Takarowa non esisteva e lo stilista era lei, Ciavatta… Comunque: si poneva Il traguardo dei 200 milioni e lei è balzato ai 170 miliardi previsti per la fine dell’87. D’obbligo, allora, la più banale delle domande: Il denaro dà la felicità o no?

« Può anche darla. Ciò che conta è che non sia l’unica spinta. Altrimenti, dietro l’angolo, puoi sempre trovare la tentazione – l’ insidia dell’illecito – ad aspettarti»

Lei è uno che vuole arrivare dove, Ciavatta?

«Guardi: obiettivi personali onestamente non me ne pongo. Sono già andato talmente avanti, rispetto alle più rosee delle mie previsioni!  Pensi a quella prospettiva di fatturati che oggi realizzo in un giorno solo…  No, no: sono già stato cosi fortunato che… Ha presente la parabola dei dieci denari? Ecco, io me la rammento sempre: ”A me son stati dati tutti. E sono convinto che da me li rivogliono”.  E difatti… Già la tragedia di Laura m’aveva molto arricchito, nei confronti di chi soffre. E oggi… Be’: è fantastico poter finalmente pensare a chi ha bisogno. Mi sento molto impegnato, in questo senso. Come tutta la mia famiglia d’altronde. Ed è un obiettivo. »

Nostalgie: ne ha?

«Si tante. Perché sono un Cancro. Un sognatore. Uno legato al passato. A sprazzi, per esempio, mi torna in mente quest’immagine di mia madre che cantava, cantava… E smise, di colpo, dopo la disgrazia di Laura. »

Nella vita cos’è che avrebbe dovuto fare e non ha fatto?

«Studiare, certamente. A volte lo sento come un gran peso qua sul petto, sa. E’ vero che ho tentato il recupero, dopo. Molto seriamente. Ho tentato di tornare a scuola. Ho imparato le lingue. Ho letto il leggibile. Ma soprattutto ho domandato tanto. Io non ho queste remore: sono uno che se non sa chiede.  Ma a volte… Be’:  incontro tanta gente diversa. E importante. E vorrei parlar di tutto, ma davanti a certe straordinarie culture… Insomma mi blocco»

Lei pare cosi ascetico, Ciavatta. Cosi portabandiera di onestà rettitudine-e-coerenza… Però la vox populi la conosce anche lei. Quella che recita che nessuno, dal niente, diventa miliardario se non paga certi prezzi e non s’avvale di certi appoggi e non ha gran pelo sullo stomaco…

«Che vuole che le dica, dopo una domanda del genere?  Le ricorderò che ci hanno dato dei “cani sciolti”, spesso. E che l’hanno fatto con malcelato disprezzo. Proprio perché abbiamo mantenuto, sempre, una netta autonomia e un netto distacco da tutti. Ma lo sa, lei, tanto per citarne una, che facciamo parte dell’ Associazione industriali praticamente dall’altro ieri?»

Quindi il chiedersi: dietro Ciavatta chi c’è…

«Significa sentirsi rispondere che non c e nessuno, proprio nessuno.»

Risposta un po’ anemica, Ciavatta. E che un po’ stona, in bocca a un industriale. Persino a uno come lei, tutto pregno d’ umanità e buoni propositi. E allora, brutalmente: i politici, per esempio: al suo livello vanno obbligatoriamente incontrati e corteggiati, e blanditi o…

«Le relazioni sono importantissime. Sempre. Anche coi politici, se capita. Ma per ascoltarli, per capire…»

Di nuovo una risposta diplomatica. Comunque: cos’e la spregiudicatezza, per lei?

«Il coraggio di affermare ad alta voce che certe cose le abbiamo fatte prima di altri, e in maniera eccellente. Il coraggio di affermare che in certe cose siamo i migliori, insomma»

Lei è uno che nei momenti difficili s’arrangia come, Ciavatta?

«Pregando, intanto. Pregando molto e poi tirando fuori tutta la forza e la grinta che mi premono dentro»

Passiamo alla paura: cos’è, per uno come lei?

«Il momento difficile, appunto. Quello che può coinvolgere la tua famiglia e tutti coloro che su di te hanno sempre puntato, dandoti grande gioia ma anche un senso di responsabilità tremendo. Venga a trovarci. In azienda, voglio dire. Vedrà: resterà allibita per l’aria d’estrema comprensione che vi si respira. E per quell’incredibile cercar di fare, tutti, l’interesse di tutti. Mi creda è fantastico aver conquistato i mercati, ma prima di tutto l’averlo fatto, il farlo, con gente che si ama e ha dato la propria vita alla buona riuscita di questa  operazione. Gente che non dimenticherò mai. Io sono uno che riconosce i meriti, sempre. »

Quest’aura perennemente deamicisiana, Ciavatta… Insomma, ripeto: non le pare un po’ eccessiva? Oh, certo: anche a me risulta che,  all’inizio, con operai e sindacati lei fu, come si dice in gergo, tutta “pappa e ciccia”. Ma dopo subentrò  il salto di qualità. E I’informatizzazione di uffici e laboratori. E la ristrutturazione, insomma. Che significò quasi 100 lavoratori lasciati a casa dalla mattina alla sera…

«Sì, fu una vicenda drammatica. Estremamente drammatica. Nella quale perdemmo tutti, tra l’altro: il sindacato, cui alla fine il tribunale diede torto;  ma anche noi, sia dal punto di vista di immagine che dal punto di vista umano, nel senso della contraddizione profonda rispetto a tutto il nostro sistema di vita cattolicesimo incluso. »

Resta che da quel momento il rapporto col sindacato si fece pessimo, in un’escalation di licenziamenti, pubblici scherni, private minacce, denunce e processi.

« Successe di tutto, sì.  Io stesso. Per mesi rimase in piazza un cubo enorme, con la mia caricatura e l’aggiornamento quotidiano dell’andamento della controversia. Un cubo sul quale molti sputavano passandoci accanto. E le minacce… Drammatiche, mi creda: drammatiche… ”Ma perché non guardano indietro”, mi chiedevo,  “a un comportamento che è sempre stato ineccepibile. »

Invece le forze sindacali furono feroci, con lei. L’accusarono di clientelismo nelle assunzioni, di paternali sino nella gestione, di lettere di dimissioni fatte firmare in bianco, di provvedimenti disciplinari immotivati…

«Per il paternalismo. Mi autodenuncio. Ma il resto lo smentisco categoricamente.»

E certo di non essere un po’ il “padrone delle ferriere”?

«Nel modo più assoluto, no, non lo sono. »

Due anni addietro sputavano sulla sua immagine: oggi che rapporto ha con Rimini?

«Buono, mi pare. Perché hanno capito, finalmente. »

Rimini è la città in cui è nato e cresciuto. Però la residenza l’ha trasferita a San Marino, dove hanno sede 2 delle sue 4 aziende. Il solito inghippo, ho letto: quello del dar posti di lavoro in cambio di agevolazioni, ossia tasse sul reddito che sono del 24%,  e dunque dimezzate rispetto alle nostre, e poi Iva e oneri sociali assai minori…

«Guardi: quella residenza l’ho voluta perché da una ricerca araldica risulta che il nostro ceppo ha origine in quello Stato. E comunque… Non entrerò nei dettagli.  Pensi solo che, valutariamente, San Marino dipende oggi dall’Italia. E che dunque le tasse si pagano, eccome. E il costo del personale, degli oneri sociali e dell’ Iva è identico. »

Però questo non può negarlo, è più facile ottenere finanziamenti agevolati… Ma lasciamo perdere. Concludiamo invece in tono più frivolo: essere riminese, Ciavatta, cosa significa?

«Restare, nonostante tutto, espansivo, ospitale, caloroso, scherzoso, e persino infuocato, a volte»

Europeo 1987

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